Il sole scalda i giardini di Sant’Elena in una giornata azzurra di novembre. Occhiali da sole e giacca di pelle, entriamo con grandi aspettative, soprattutto per la curatela di Cecilia Alemani.
Decidiamo di dare un inizio mainstream alla giornata e cominciamo così la visita dal padiglione vincitore, l’Inghilterra. Alle pareti una decorazione ostentatamente kitsch, che disturba quello che dovrebbe essere il focus dell’esposizione: video di cantanti nere britanniche, riprese in studio, in situazioni informali mentre improvvisano o si esibiscono insieme per la prima volta.
Video filtrati da patine colorate, verdi, viola e arancioni. Le cinque cantanti sono incredibilmente talentuose, peccato che non risaltino nella decorazione optical anni ’80 piuttosto stucchevole e che, al di là del buon intento, a noi il contenuto sembri piuttosto deludente. Il padiglione si gira velocemente, non siamo neanche tentate di sederci sui sedili d’oro pacchiano-barocchi.
Padiglione Gran Bretagna, "Feeling Her Way", curatrice Emma Ridgway, Artista Sonia Soyce
Mezze deluse, decidiamo di fare un torto agli amici british e di tradirli con gli odiati cugini francesi. Non c’è niente da fare, la Francia ha classe. È matura e ponderata e rimane fedele al suo motto di liberté, égalité, fraternité, che, per una volta, estende anche a chi non sia un purosangue privilegiato. Tutto questo è possibile ovviamente non grazie ad un artista 100% francese doc, ma a Zined Sebira, franco-algerina residente a Londra, che con la sua Les rêves n’ont pas de titres, trasforma il padiglione francese in uno studio cinematografico. Qui finzione e realtà, memoria personale e collettiva vengono messe in scena senza confini. L’ispirazione nasce da una serie di film degli anni ’60, co-produzioni francesi, italiane, algerine e inglesi, che servono da traccia all’artista per raccontare la propria vita e il proprio percorso artistico. Dopo una quarantina di minuti e dopo aver guardato quasi tutto il documentario che è proiettato nel retro del padiglione, soddisfatte, ripartiamo.
Padiglione Francia, "Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles",
curator* Yasmina Reggad, Sam Bardaouil e Till Fellrath, artista Zineb Sedira
Sicure della superiorità tedesca in qualsiasi campo, ci dirigiamo verso il padiglione della Germania, piene di aspettative. Ma veniamo tradite brutalmente da un padiglione troppo vuoto, troppo concettuale e troppo snob. Cerchiamo comunque di approfondire e ci sediamo quindi sotto il portico d’ingresso per leggere il catalogo, magari una volta capito il concept l’installazione ci sembrerà geniale: niente, quest’anno alla Germania non interessava condividere arte e passare un messaggio al pubblico, voleva suonarsela e cantarsela da sola. Ce ne andiamo sbuffando.
Passaggio rapido, non degno di nota, da Svizzera e Corea, e via dalla Spagna. Anche gli iberici, che non si sa per quale motivo abbiano sempre artisti catalani o baschi a rappresentarli, non riescono a convincerci. Il discorso della ricerca storico-architettonica del padiglione, già visto nel Padiglione tedesco, è carino, però dai, chiqu@s, siamo alla Biennale di Venezia, non allo spazio indipendente della periferia gentrificata.
Dopo la Spagna, non lo fai un salto in Belgio? Qui un’installazione di una ventina di video che mettono in scena bambini che giocano, una sorta di inventario delle tecniche di divertimento infantili di tutto il mondo. Indovinate chi sono i più badass? Al paese delle patate piace giocare facile e va detto che il risultato ci piace.
Padiglione Belgio, "The Nature of the Game", curatore Hilde Teerlinck, artista Francis Alÿs
E poi, Dottoressa Alemani, arriviamo da lei.
Nonostante la confusione dovuta alla concentrazione di persone in questo sabato di inizio novembre, nel padiglione centrale ci perdiamo, ci emozioniamo e studiamo. Al di là delle opere contemporanee presentate, tante belle, alcune bellissime e alcune bruttine, sono le “capsule del tempo”, che ribaltano la Storia dell’Arte del Novecento, a gasarci. Micro-mostre, scrigni di arte e poesia, ricchissime di approfondimenti che vanno a ripescare delle perle della storia dell’arte per fortuna non andate perdute. La prima si intitola La culla della strega e noi siamo fan già dal titolo. Raccoglie artiste surrealiste, futuriste e legate all’Haarlem Renaissance o al Bauhaus. Una trentina di personalità che si sono ribellate al sistema etero-patriarcale dedito alla razionalità contrapponendovi il principio di fantastico e di irrazionale, attraverso l’idea di metamorfosi, ibridità, misticismo e alchimia.
La seconda capsula del tempo si intitola Tecnologie dell’incanto ed è dedicata alla relazione corpo-tecnologie affrontata da artiste italiane degli anni Sessanta. La terza è Corpo orbita, che presenta artiste del XIX e del XX secolo che sperimentano nuovi linguaggi espressivi come forma di emancipazione. Quest’ultima ispirata alla madre di tutte le mostre al femminile, ovvero Materializzazione del linguaggio, del 1978 (di cui vi avevamo già parlato qui, https://www.instagram.com/p/CeyYY5aogZg/).
La capsule storica "Culla della strega"
Le ultime due capsule sono all’Arsenale e nel grande spazio Corderie. Una delle due, Una foglia, una zucca, un guscio, una rete, una borsa, una bisaccia, una bottiglia, una pentola, una scatola, un contenitore, diretta citazione del libro di Ursula K. Le Guin. Dove l’ autrice ribalta la narrazione del processo tecnologico, individuando un nuovo criterio storico: non quello della dominazione sulla natura, tipicamente maschile, bensì quello della capacità umana di inventare tecniche di raccolta e conservazione. Insomma, non l’aratro, ma la borsa per conservare le patate. Ultimo capitolo delle capsule del tempo, caro anche alle Altremuse, è La seduzione di un cyborg, con opere di artiste di inizio ‘900 che hanno immaginato nuove interazioni tra umano e artificiale, creando avatar e forme ibride in un’idea di post gender e post umano. Tra le opere più suggestive, ricordiamo quelle incredibilmente cyberpunk di Kiki Kogelnik – disegni di corpi umani fluorescenti o spruzzati con quello che pare essere un aerografo, mescolati ad ingranaggi o a più essenziali forme geometriche - che sembrano incarnare lo spirito degli anni Novanta, ma risalgono ad una trentina di anni prima.
Fuori dalle capsule del tempo siamo state sedotte dalle opere video di Janis Rafa e Diego Marcon. Il ricercato video di Janis Rafa, Lacerate, del 2020, racconta una sorta di fiaba nera sulla violenza domestica, dove splendidi cani da caccia leccano via dal pavimento il sangue dell’uomo e si inseguono sulle scale di legno scricchiolanti per raggiungere la padrona sconvolta e assassina. Nell’opera di Diego Marcon, The parents’ room, del 2021, invece viene narrato, in chiave romantica e grottesca per via dell’utilizzo di CGI e maschere prostatiche, il delitto efferato ad opera di un padre di famiglia. Che dire, grazie Dott.ssa Alemani.
All’Arsenale continuiamo la visita addentrandoci nel buio del padiglione di Malta, intitolato Diplomazija Astuta, a cura di Keith Sciberras, Jeffrey Uslip. Qui, gli artisti Arcangelo Sassolino, Giuseppe Schembri Bonaci e Brian Schembri hanno ripreso la vicenda narrata da Caravaggio nella Decollazione di San Giovanni Battista trasfigurandola in installazione. Il nesso è forse eccessivamente ambizioso, o comunque non sufficientemente chiarito. Tuttavia la realizzazione è maestosa: dal soffitto dello spazio piovono gocce di acciaio infuocato, che si spengono in bui bacili d’acqua quadrangolari. L’opera ripropone, in effetti, uno scenario che potrebbe essere sia biblico che preistorico: è la fine del mondo o il suo inizio. Nonostante il filo rosso del barocco leghi saldamente la citazione alla realizzazione, non riusciamo a non esserne sedotte.
Il padiglione Italia, a cura di Eugenio Viola, come ben si sa, è stato interamente affidato all’opera di Gian Maria Tosatti. Il titolo è Storia della Notte e Destino delle Comete. L’immenso spazio, quattro sale in tutto, in questo caso è stato trasformato in una scenografia immersiva. Si entra in quella che potrebbe essere una fabbrica abbandonata di provincia. Fuori è buio, ma, all’interno, dei lucernai appannati simulano perfettamente la luce del giorno. Ci sono macchinari ostaggio della polvere, calendari bloccati indietro, in un’Italia remota e rimossa. Basta aprire una porta e siamo all'interno di un appartamento anni Cinquanta. Con le piastrelle che traballano, tanto sono fissate male. Alle pareti gli aloni dei quadri e dei crocifissi che c’erano e non ci sono più testimoniano una presenza e la sua fine. Una lunga finestra affaccia su una serie ordinata di banchi, con sopra macchinari antiquati. Nell’aria c’è odore di cloro. Lo stesso riversato nella piscina che si trova nell’ultima sala: letteralmente un molo che affaccia su una notte e un mare tetri e artificiali. In lontananza, brilla qualcosa, il guardasala, un signore con i capelli bianchi che si lamenta dei visitatori che vogliono buttarsi in quell’acqua a tutti i costi, ci dice che sono lucciole. Il foglio di sala conferma, ma non ha la stessa voce del signore. Al termine del percorso, si leggono le poche righe lasciate dal curatore. Quella di Tosatti è una riflessione sul sogno industriale, quello che ha inquinato e illuso la mente dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, per poi svanire andando in frantumi : una grande corsa all’industria, al lavoro a tutti i costi, al lavoro come sogno, approdata nel nulla. Questo prima di capire che il lavoro non è un fine ma un mezzo. O meglio: è un mezzo infinito, perché non finisce mai, esattamente come mai si è arrivati alla macchina che fatica al posto nostro. Dopo aver visto Tosatti, le fabbriche di provincia si trasformano in nodi legati al dito: ci siamo cascati, ma non lo rifaremo più.
Padiglione Italia, "Storia della Notte e Destino delle Comete", curato da Eugenio Viola, Artista Gian Maria Tosatti
Dopo la pausa tramezzini lungo il canale (i carabinieri ci chiedono di sloggiare ma a noi l’autorità ci fa un baffo e ci risediamo appena girano l’angolo) via che affrontiamo la rive droite dei Giardini, ovvero tutti quei paesi un po' più sfigati che non hanno un passato colonialista o non sono potenze economiche mondiali. Vediamo la Serbia, carino, l’Austria, insomma.
Se ci metti dentro la tragedia greca noi ci caschiamo subito e infatti la Grecia lo fa e il nostro amore per il paese che ha ospitato le nostre vacanze migliori si rafforza. Loukia Alavanou con Oedipus In Search of Colonus crea un viaggio fra antico e contemporaneo. O meglio, fra antico e futuristico attraverso la figura di Edipo per gettare luce sulle condizioni in cui vivono le comunità rom della periferia di Atene.
Risalendo i Balcani passiamo per il padiglione dell’Ungheria dove entriamo in maniera frivola e scanzonata, attirate, come le gazze dai brillantini, dai colori pastello delle sculture esposte. Qui il risultato estetico è per noi un 10, come se Antoni Gaudí fosse rinato reincarnato in un esponente della Gen Z.
Stufe di paesi minori torniamo all’Olimpo dei poteri forti.
Stringendo i denti entriamo nel padiglione degli Stati Uniti. Qui, scoccia proprio dirlo, impazziamo. Le sculture presentate, 7 in tutto, sinuose, ieratiche e ancestrali riprendono forme e immagini della diaspora africana che nel tempo sono state assorbite dalla narrazione colonialista occidentale.
Già solo la facciata del padiglione è una dichiarazione d’intenti: Leigh ricostruisce la decorazione dell’Esposizione coloniale del 1931 di Parigi.
Cos’è questa esposizione? Una fiera a cui tutte le potenze occidentali partecipano e dove si allestisce una mostra per esibire le culture e i popoli dei paesi allora sotto il controllo coloniale. L’esposizione include ricostruzioni di abitazioni, templi, come quello di Angkor Wat, e alcuni villaggi popolati da gruppi di persone in carne ed ossa prelevate dalle loro terre. In poche parole: uno zoo umano.
E così, con eleganza e femminilità, Simone Leigh fa quello che nessun altro paese ha pensato di fare: riflettere, non senza ironia, sulla struttura stessa della Biennale. Perché spiace dirlo ma anche la nostra amata Biennale di Venezia affonda le sue origini nella tradizione ottocentesca di expo mondiali e fiere dal forte gusto etnografico e dal forte stampo occidentale. E qui si chiude il cerchio. Come tutte le altre manifestazioni internazionali, che siano expo, fiere, olimpiadi o mondiali di calcio, anche alla Biennale, se guardiamo al di là della patina glam e intellettuale, troviamo decine di padiglioni nazionali che altro non sono se non un ulteriore mezzo di espressione del soft power internazionale in una fiera di vanità nazionaliste. Già la distribuzione dei padiglioni ce lo fa capire: un sistema di potere gerarchico che si irradia dall’ingresso dei giardini andando a sfumare più ci si allontana da qui.
Padiglione Stati Uniti d'America, "Sovreignty", curatrice Eva Respini, Institute of COntemporary Art/Boston, artista Simone Leigh
Insomma, avevamo aspettative alte ma già sapevamo che non poteva essere tutto rose e fiori. Piccolo appunto : la manutenzione perfavore! A noi i padiglioni con le ragnatele e le finestre sporche proprio danno fastidio. Partiamo comunque felici dell’impronta che Cecilia Alemani ha dato alla mostra. Buone le intenzioni, ci mancherebbe, belle le opere, non è scontato, media la realizzazione. In conclusione, in un’edizione dal forte stampo femminile-post-coloniale-politicamente-corretto, Simone Leigh è forse l’unica che riesce a fare breccia nel guscio dell’auto narrazione del suprematismo bianco occidentale.
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