Fra mito e realtà, furore e sacralità, impeto e passione: ecco la danza della Menade di Skopas. Conosciute anche come baccanti, le menadi sono le protagoniste del culto di Dioniso. Ricoperte da una pelle di cerbiatto, con corone di edera fra i capelli, corrono sulle montagne durante le feste dionisiache, accompagnate da cortei di satiri ed animali della foresta, al suono assordante di cembali, timpani e flauti. Oltre al culto di Dioniso, tutte le varie sacerdotesse della Grecia antica, dalle Pizie di Apollo, alla Sibilla, a Cassandra, sono assimilate alla figura delle Baccanti. Tutte infatti esercitano i loro riti e la loro attività profetica dopo essere entrate in una fase di estasi. Nell’iconografia, gli attributi della Menade sono il tirso e la pelle di pantera o di cerbiatto. Dal IV secolo, per tutta l'età ellenistica e fino a quella romana, la Menade serve più che altro come pretesto agli artisti per rappresentare le forme femminili e sottolinearne la bellezza, attraverso i movimenti e le pose più agitate. È a partire dal V secolo che appare con sempre più evidenza il carattere orgiastico della Menade, viene rappresentata d’ora in poi danzando. Questo è già evidente nella statua della Menade attribuita a Skopas. Nato intorno il 390 a.C. a Paros, nelle Cicladi, Skopas è stato uno scultore e architetto greco. Fra i grandi maestri della scultura greca classica e di quella occidentale in generale, fu forse il primo ad aprirsi al pathos, ovvero la dimensione dell'emotività umana e della drammaticità, fino a quel momento solo in parte esplorate. La Menade, detta anche Menade di Dresda, è in realtà una copia in scala ridotta di quella Menade di Skopas descritta da Callistrato nelle sue Ekphràseis, scolpita intorno al 330 a.C.. Il movimento della figura è costituito da una doppia torsione attorno ad un asse centrale che vuole esprimere il furore e l’eccitazione della danza bacchica, senza però dimenticare il canone classico. La torsione è impetuosa e si trasforma quasi in un vortice: dalla gamba sinistra passa per il busto e per il collo fino ad arrivare alla testa, che si lancia all’indietro nell’impeto della danza, girandosi e seguendo la direzione dello sguardo. L’espressione è intensa, estatica, la bocca è semiaperta. Anche il panneggio del chitone partecipa del movimento, si apre all’altezza dell’inguine ed è mantenuto stretto in vita da una cintura. Il totale abbandono del corpo alla passione è descritto anche dalla chioma di capelli che si scompone e ricade ondosa sulle spalle.
L’esperienza delle baccanti è sostanzialmente un’esperienza collettiva, diametralmente opposta a quella della collettività della città. Una parte di storia che rimane ancora oggi velata da un’aura mitico-poetica. Ed è sicuramente la danza l’elemento centrale e culminante di tutto il rito, il momento in cui tutta l’energia e tutta l’eccitazione, istigate fino a quel momento, esplodono finalmente. Ed è la danza ad essere all’origine del genere della tragedia. Sarebbe infatti proprio l’elemento corale e collettivo del culto dionisiaco, fra danza e musica, il nucleo primario da cui si originò l’intero genere della tragedia.
Nella cultura greca la figura di Dioniso è centrale e profondamente legata ai riti dell’agricoltura. Si può dunque pensare che arcaicamente anche le Menadi avessero la stessa valenza, che rappresentassero e dunque provocassero, mediante l'eccitazione orgiastica, le potenze cicliche della natura. Nel rito di iniziazione a Dioniso è prevista la perdita del senno apollineo, della consapevolezza, del controllo, dell’armonia e della razionalità. Dioniso in questo senso rappresenta un’alternativa al sistema normativo della società. Unirsi a Dioniso significa uscire dal controllo della città, basato sulla razionalità e sull’ordine, significa raggiungere l’invasamento e perdere la propria individualità come essere umano sociale. “Lontane dai telai, lontano dalle spole le ha incalzate il pungolo di Dioniso.” [Euripide, Baccanti, 118-119] le Menadi infatti scappano dalla città compiendo così una scelta drastica: si spogliano del loro ruolo sociale femminile e lasciano la casa, mariti e figli, per vivere la natura, le montagne ed i boschi, per partecipare della vita dell’universo e ricongiungersi con il loro istinto animale. Il rito altro non è che il ritorno all’autenticità emotiva e vitale scandita dalla musica, pervaso dall’ambiguità propria del culto di Dioniso, un culto che arriva da Oriente, con uomini vestiti da donne che si mescolano con le donne, e donne che si spogliano dei loro attributi e responsabilità sociali.
Per questi motivi il culto è così mal visto dalle poleis greche, come ci testimonia più di tutte la tragedia di Euripide Le Baccanti, dove il Re Penteo cerca di scacciare Dioniso da Tebe, firmando così la sua sentenza di morte. E infatti, come ci diceva Nietzsche, tutto parte dalla lotta eterna tra i due istinti naturali diversi, che i greci incarnano nelle figure di Dioniso e di Apollo. L’essenza dell’apollineo sta nel dominio consapevole e sereno che l’essere umano realizza sulla realtà, grazie alla coscienza individuale e all’ordine delle forme. Il dionisiaco consiste nell’annullamento di tutto questo ordine e prende vita nello sprigionamento di tutte quelle forze più istintive ed in parte oscure che abitano nel profondo di ognuno di noi. La dialettica che si instaura fra Penteo e Dioniso si gioca sullo stesso terreno. La tragedia ci insegna che per raggiungere una società veramente equilibrata, la dimensione Apollinea e Dionisiaca devono poter convivere in ognuno di noi, e quindi nella comunità, la quale solo includendo anche il nostro lato più oscuro ed istintivo può arrivare alla vera armonia.
Bibliografia
Valerie Toillon, Danse et gestuelle des ménases, in Théologiques, vol. 5 n° 1 (diffusione digitale gennaio 2019)
H. Philippart, Iconographie des «Bacchantes» d'Euripide, Revue belge de Philologie et d'Histoire Année 1930 9-1 pp. 1-72 (diffusione digitale persee.fr)
Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana. Antichità e Medioevo, Sansoni, 2002
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