O Priapo, potente amico, salve, sia che tu voglia essere detto il creatore del mondo o della sua natura stessa, o Pan, salve. Perché per la tua forza è creato tutto ciò che riempie la terra e l’aria e il mare. Perciò salve o santo Priapo, salve.
- Inno a Priapo, Carmina Priapea
Le rappresentazioni falliche sono parte integrante del linguaggio figurativo del tessuto urbano di Pompei: chiunque visiti le rovine della città vesuviana può notarne la presenza insistente sulle pareti esterne degli edifici, sulle sommità degli ingressi e sul pavimento stradale. Che significato ha questa fusione tra l’immaginario privato e lo spazio collettivo?
Al momento dell’eruzione del 79 d.C. Pompei contava circa ventimila abitanti e una superficie di 440 mila metri quadrati. Per secoli la città rimase sepolta e ignorata, i primi scavi iniziarono solo nel 1748 per volere di Carlo III di Borbone ma proseguirono in modo discontinuo nei decenni successivi per poi venire sospesi e ripresi solo dopo l’Unità d’Italia. Durante le esplorazioni emerse una quantità sterminata di mosaici e affreschi raffiguranti scene erotiche all’interno delle ville, dei giardini e delle case private, e graffiti dai testi osceni e falli in rilievo sulle pareti esterne degli edifici. Queste raffigurazioni vennero ritenute inappropriate e celate al pubblico fino agli anni Sessanta, periodo in cui l’interesse verso la sessualità nel mondo antico e gli studi di genere stimolarono la rivalutazione e l’integrazione degli oggetti d’arte erotica nei musei (la maggior parte dei reperti archeologici e degli oggetti fallici pompeiani è oggi conservata nel Museo Archeologico di Napoli).
Probabilmente queste immagini suscitarono scandalo per la disinvoltura con cui venivano esposte negli spazi pubblici e privati più che per il loro contenuto: il fatto che l’onnipresenza dei falli nel tessuto urbano fosse socialmente accettata deve avere disturbato gli spettatori tra Otto e Novecento perché implica un’attitudine e un’adesione a un sistema di valori molto diverse dalle nostre.
Dunque quale significato possiamo attribuire al simbolismo fallico nella Roma imperiale? Che cosa ci racconta la relazione tra l’immagine e lo sguardo dello spettatore?
Innanzitutto vi è una differenza fondamentale tra le scene pornografiche affrescate nei postriboli e nelle ville e la raffigurazione dei falli sugli spazi pubblici pompeiani: in quest’ultima la funzione dei rilievi è apotropaica, ovvero protettiva, non si tratta semplicemente di arte erotica. Ebbene sì, collocando i falli sulla propria abitazione o negozio si cercava di tenere lontano il malocchio nella convinzione che l’icona del pene eretto propiziasse l’influsso delle forze benigne.
L’evidenza materiale del fallo è connessa con il culto di un dio in particolare: Priapo. Si tratta di una divinità proveniente dalla cultura greca, in particolare dalla zona dell’Ellesponto. Priapo era figlio di Venere e Dioniso o, secondo un’altra versione, di Venere e Zeus, e la grandezza esagerata del suo fallo sarebbe dovuta a una punizione inflittagli da Era, gelosa di Venere. Le prime tracce legate direttamente al culto di Priapo risalgono al III e II secolo a.C. in Grecia e al II secolo a.C. a Roma (vi sono comunque testimonianze di altre divinità itifalliche più antiche) e presentano una forte connessione con la fertilità, il mondo agricolo e animale e le orge dionisiache. Sia nel mondo greco che romano venivano celebrate le falloforie, ovvero processioni in onore di Priapo e Dioniso in cui i partecipanti trasportavano dei falli di legno, intonavano canti e danzavano: si trattava di un rituale per propiziare la fertilità. Nella sua forma romana, Priapo è una sintesi di differenti divinità provenienti da differenti culture e influenze i cui ruoli, immagini e simboli sono stati adattati ai costumi del periodo. L’uso apotropaico del fallo è presente anche nella cultura greca antica ed etrusca, ma la sua presenza nel mondo romano è più pervasiva ed elaborata: probabilmente questo è dovuto anche al fatto che nel corso del I secolo d.C. Priapo inizia a ricoprire ruoli diversi, è guardiano dei giardini, protettore dei marinai, e viene associato al passaggio dalla vita alla morte.
L’arte connette il mondo umano al divino, l’icona evoca la dimensione del sacro. Per questo si differenzia dagli altri usi delle rappresentazioni falliche negli affreschi pornografici, che servivano piuttosto ad aumentare la tensione sessuale di chi partecipava a banchetti, feste e visite ai postriboli. Le rappresentazioni del fallo abbondano sia nell’arte che nella letteratura romana del I secolo d.C, ma la sua funzione nei testi è differente: nelle elegie e nelle satire di autori come Catullo, Marziale, Giovenale e Orazio, e nei Carmina Priapea (una collezione di poemi dedicati al dio Priapo) il tono è scherzoso e l’oscenità dei versi ha lo scopo di divertire e intrattenere. Inoltre i testi, al contrario delle immagini presenti negli spazi pubblici, sono relegati a un gruppo limitato e poco rappresentativo della società romana: sia gli autori che i lettori fanno parte di un’élite culturale. Si tratta di un ruolo diverso da quello religioso e solenne degli amuleti e delle insegne, che comunque non viene negato, infatti la coesistenza delle dimensioni comica e sacrale è possibile solo all’interno di una società che riconosce al fallo anche una potenza creatrice e spirituale.
L’energia sessuale del fallo è sia protettiva che aggressiva: è scudo e arma, è amuleto e icona di fertilità. Dobbiamo considerare anche che lo stupro e la penetrazione anale erano praticati come atti di dominio nell’Antica Roma sia in ambito bellico che domestico. I cittadini, ovvero i maschi adulti liberi, erano autorizzati a usare gli schiavi per soddisfare i propri impulsi sessuali, con la condizione di assumere sempre il ruolo dominante: ricoprire quello passivo era considerato umiliante quando si avevano rapporti con i servi. In guerra era usanza dei Romani fare razzie nei territori invasi e stuprare le donne dei nemici: l’associazione tra la conquista della terra e la conquista del corpo femminile ha origini antiche e accomuna molte culture patriarcali. Dunque il simbolismo fallico nell’età imperiale romana ha delle implicazioni che vanno oltre la sfera religiosa e sessuale e riflette dei meccanismi di potere più profondi. Connesso con la medicina e le pratiche religiose, il fallo è stato rappresentato anche in numerosi cimiteri nella nostra penisola e diventava uno strumento dai poteri curativi quando veniva usato come offerta votiva in un santuario.
Nella città di Pompei le insegne falliche in situ si trovano sopra le porte, sugli ingressi di botteghe e negozi, sul pavimento della strada. Generalmente il fallo è incorniciato da una struttura rettangolare che, fungendo quasi da tempio, gli conferisce uno spazio e un’aura sacrali; nella maggioranza delle insegne è rivolto verso l’alto oppure verso destra, coi testicoli a sinistra (probabilmente la direzione serve a sottolinearne il potere positivo), e in alcuni casi è dotato di ali. Le raffigurazioni falliche proteggono anche gli individui oltre che le case: oltre a essere presenti nelle abitazioni, nei negozi e nei cimiteri vengono indossate o utilizzate sia da adulti che da bambini sotto forma di amuleti, ciondoli, lampade a olio, statue votive, e tintinnabula, ovvero sonagli che mossi dal vento creano un suono che si pensava allontanasse il malocchio. La nozione del malocchio si fonda infatti sulla credenza che lo sguardo fisso dell’invidioso abbia degli effetti dannosi su chi viene osservato, così il fallo dalle connotazioni esagerate o eretto diventa un’affermazione per spaventare chiunque abbia intenzioni maligne.
Gli attributi eccessivi di Priapo vanno dunque intesi come una fusione di protezione, intrattenimento e risata: si pensava che quest’ultima fosse di per sé apotropaica e si collocasse sul polo opposto delle forze maligne. L’uso del fallo come simbolo apotropaico nei primi secoli dell’età imperiale romana attraversa la totalità delle classi sociali, dei territori e dei diversi mezzi artistici. Arte e magia, religione e medicina, sfera pubblica e privata si fondono nel tessuto urbano pompeiano evocando il potere semi-divino della forza generativa maschile.
Bibliografia
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